Nuovi media, attenzione, dipendenza

Nuovi media, attenzione, dipendenza

di Tiziana Terranova -
Numero di risposte: 0
Carissimi

dopo la bella discussione di ieri dove sono emersi dei temi specifici rispetto alla vostra esperienza dei nuovi media, ecco due interviste a sherry turkle, la psicologa di Internet, autrici di alcuni libri sull'argomento.
dal sito
http://www.ledizioni.it/libri/?tag=sherry-turkle
ma li riporto qui perchè più semplice

Continuiamo oggi allora e vi invito anche a commentare su questo forum

Ringraziamo Benedetto Vecchi de Il Manifesto per la bella intervista a Sherry Turkle, in occasione della pubblicazione del ns volume La vita Nascosta degli Oggetti Tecnologici.

Non si legge benissimo, ma ingrandendo si riesce a leggere meglio!

Qui di seguito copiamo la trascrizione, grazie a IDV – Bondeno

LA COMUNITÀ E L’IDENTITÀ A PORTATA DI CLICK

Le tecnologie digitali consentono di sviluppare una seconda e più soddisfacente vita che si affianca a quella del mondo fisico. Questo non significa che la rete, il computer e i telefoni cellulari non vengano usati anche come tecnologie del controllo e della sorveglianza. Un’intervista con la studiosa statunitense in occasione dell’uscita del volume «La vita nascosta degli oggetti tecnologici»

È una studiosa che ama miscelare la psicoanalisi, la filosofia di Jean-Paul Sartre e le posizioni più radicali dei media theorists per mettere a punto uno schema di interpretazione delle tecnologie digitali sempre rigoroso e puntuale sulla complessa trama di rapporti tra il «mondo fisico» e La vita dentro lo schermo, come recita il titolo del suo secondo libro tradotto in Italia. Sherry Turkle è infatti considerata la studiosa che ha compreso meglio di altri come i videogiochi, la comunicazione on-line e lo sviluppo di Internet costituiscano gli elementi fondamentali di un habitat in cui è impossibile parlare di natura umana prescindendo da essi. Nel suo saggio che apre il volume La vita nascosta degli oggetti tecnologici, la docente del Massachussets Intitute of Technology sostiene, ad esempio, che il cyborg più che animare romanzi o film di successo è la figura che meglio di altre rappresenta le trasformazioni nella costruzione della soggettività e della personlità degli umani. Ed è attorno a questi temi che ruota l’intervista.

Nel suo saggio La storia segreta, lei si domanda: «Cosa c’è che non va nella nostra vista se dobbiamo costruire o partecipare a comunità virtuali?»… Non propone però una risposta. La ripresento: cosa c’è che non va nella nostra vita se dobbiamo vivere o partecipare a comunità virtuali?
Non serve rispondere a questa domanda. Piuttosto la domanda a cui dobbiamo rispondere, in presenza di una così pervasiva presenza di tecnologie digitali, è: «Cosa abbiamo perso nella vita che facciamo rispetto ai nostri antenati?». Sicuramente uno dei fenomeni di cui abbiamo fatto esperienza è la perdita del senso della comunità.
La casa dove abito è situata in un delizioso quartiere che non prevede però nessun tipo di attività comunitaria. I bambini non frequentano una scuola locale e passano gran parte della giornata fuori dal quartiere, mentre gli adulti sono sempre più presi dal loro lavoro o dalle ansie e faccende private. Se mi capita di passeggiare nel parco del quartiere li vedo seduti con lo sguardo fisso sul loro Iphone o sul Blackberry, pigiando tasti, quasi che il mondo intorno a loro non esistesse. In questo spazio esperenziale e emozionale che si crea nel rapporto tra il singolo e la tecnologia comunicativa usata, gli uomini e le donne cercano di ritrovare quella comunità che il mondo fisico non riesce più offrire. Ci troviamo di fronte a una «seconda vita» che si affianca a quella al di fuori dello schermo o del cellulare. È cioè innegabile che prestiamo sempre più attenzione alla vita che scorre nei brevi messaggi inviati e ricevuti dal nostro telefono cellulare che non a ciò che accade nella vita cosiddetta reale. Sono sempre di più gli uomini e le donne che hanno relazioni amicali, sentimentali con persone incontrate in questa «seconda vita».
È un discorso che dovremmo tenere ben presente quando proviamo, ad esempio, a definire un punto di vista su quel delicato passaggio dall’adolescenza alla maturità.
Da quando sono nati, i giovani sono immersi in uno spazio virtuale, anche se gli adulti giudicano sbrigativamente e negativamente il rapporto che i teenager hanno con la tecnologia. Negli Stati uniti spesso divampano delle «guerre culturali» mosse dal mondo adulto ai comportamenti giovanili rispetto ai videogiochi o alla loro assidua partecipazione alle chat-room o a social network come Facebook. Sono però giudizi sbagliati. Gli adolescenti devono infatti poter vivere le loro esperienze senza incorrere in divieti e punizioni o in uno stigma del mondo adulto. Inoltre, dobbiamo capire perché il mondo fisico non consente di sviluppare momenti di socializzazione soddisfacenti, favorendo la migrazione dei teenager verso il mondo virtuale. La realtà che i giovani vivono è spesso percepita come loro ostile, violenta. Le scuole superiori, è noto, devono prepararli per il college, esercitando così una pressione psicologica per loro intollerabile. Hanno dunque bisogno di vivere esperienze dove non si sentono messi sotto tiro. In altri termini, hanno bisogno di una tregua rispetto alle pressioni che il mondo adulto esercita su di loro.
Un’obiezione a questa posizione potrebbe essere: il passaggio dall’adolescenza alla maturità non è mai graduale. Giusto: ma mai come adesso il mondo adulto ha cercato di esercitare così ossessivamente il controllo sugli adolescenti. L’esempio degli adolescenti è importante, perché ci troviamo di fronte a dinamiche simili che coinvolgono però gli adulti, la cui vita è minata da tensioni, difficoltà, conflitti, talvolta anomia. La vita dentro lo spazio digitale può costituire, tanto per gli adolescenti che per gli adulti, un’oasi dove le difficoltà rimangono fuori. Può essere cioè lo spazio della tregua, della sosta, della moratoria sui conflitti esistenti nel mondo fisico, del riprendere fiato.

Nei suoi precedenti libri ha parlato della tecnologia informatica come una sorta di medium attraverso il quale manifestare un «secondo io». Nel frattempo il computer, la rete e i telefoni cellulari sono diventati oggetti quotidiani, al punto che i confini tra l’io e il secondo io svaniscono. Lei ha sempre sostenuto che la tecnologia può potenzialmente aiutare a conoscerci meglio. Non le viene mai il dubbio che possa diventare invece un ostacolo?
Il legame tra il «secondo io» e il sé è un rapporto sempre in divenire. Posso prendere un tè con un mio amico in un locale e così facendo diamo vita a una relazione «chiusa». Oppure posso stare in quello stesso locale con il mio amico, sorseggiando un tè e conversando amabilmente con lui mentre siamo collegati on line con molte altre persone. Anche in questo caso siamo di fronte a una relazione «chiusa» ma che prevede persone non presenti fisicamente. Posso inoltre passare molto tempo facendo scorrere sul mio video messaggi, volti di persone che incontro on-line: anche in questo caso sono relazioni che hanno una connotazione precisa, con una loro storia e una tensione a condividere temi, argomenti, passioni, interessi. Così, come esiste la seconda vita, esiste un secondo io. Quello che mi preme sottolineare però è che esiste ormai una forte integrazione tra ciò che accade dentro lo schermo e fuori da esso. Prendiamo ad esempio l’ambiente virtuale di spazi come Second life, dove puoi frequentare corsi su determinati argomenti, incontrare persone; oppure puoi costruire amicizie che possono rivelarsi messaggere di buone opportunità lavorative al di fuori dello schermo. Allo stesso tempo puoi partecipare a discussioni culturali stimolanti o a eventi politici che modificano la tua vita al di là della rete. In altri termini è il confine tra mondo fisico e mondo virtuale che sta venendo meno.
Indipendentemente da quanto affermano molti studiosi, sono ottimista sulle potenzialità della vita virtuale, può rafforzare il nostro sé. Sarà per la mia formazione, ma continuo a ritenere la tecnologia come un possibile strumento per affrontare alcuni problemi relativi al nostro rapporto con gli altri.

Lei ha sostenuto che «tutti siamo cyborg». Anche in questo caso, la figura del cyborg costringe a misurare in termini diversi il rapporto tra naturale e artificiale. Non è che il computer ha reso evidente l’arbitrio di chi stabilisce il confine tra mondo naturale e quello artificiale?
Il confine tra naturale e artificiale è cominciato a venire meno quando gli umani hanno iniziato a costruire strumenti che li aiutavano nella vita di ogni giorno. Siamo però arrivati a un punto di svolta attorno alla figura del cyborg, se prendiamo il cyborg come un’opportunità per capire criticamente la concezione dominante del rapporto tra gli umani e la tecnologia. Non dico certo una sciocchezza se affermo che è capitato almeno una volta nella vita di desiderare di essere un cyborg: essere cioè più forti, saper meglio gestire situazioni difficili, perché la tecnologia può rafforzarci. Non dovremmo ironizzare sul sogno a occhi aperti degli umani resi più potenti dalla tecnologia, bensì riconoscere che siamo già tutti dei cyborg. Dalla medicina alla vita quotidiana, la tecnologia non è solo un’estensione delle nostre facoltà cognitive o della nostra forza fisica, ma è ormai parte integrante della natura umana. Ci sentiamo nudi o soffriamo d’ansia senza il nostro telefono cellulare; gli adolescenti entrano in fibrillazione se si accorgono di averlo dimenticato a casa: un adulto può dare in escandescenze o, come si dice?, andare fuori di testa se non ha il suo Blackberry. Ci sentiamo a disagio non perché la nostra estensione artificiale è assente, ma perché ci sentiamo orfani di una parte della nostra natura umana, la tecnologia appunto.

Lei ha affermato che la tecnologia è l’«architetto della nostra intimità». Una bella frase. Può spiegare cosa intende?
La tecnologia scandisce il tempo e gli spazi dove viviamo. Facilita i nostri incontri sociali; è cioè parte della nostra intimità. E come accade in tutte le introiezioni, può diventare una costrizione, proprio perché partecipa alla strutturazione della nostra personalità come una forza oggettiva esterna a noi e sulla quale non esercitiamo nessun controllo.

Nel libro La vita dentro lo schermo lei analizza a fondo come la progettazione di un ambiente artificiale o di un sistema operativo rifletta sempre la nostra visione del mondo. Questo vuol dire che per parlare del ruolo del computer nella nostra società dobbiamo parlare anche dei rapporti di forza, delle strutture di potere esistenti…
Ci sono due livelli da analizzare. Nel primo, le tecnologie digitali sono tecnologie del controllo e della sorveglianza. Penso però che ci troviamo di fronte a un controllo e una sorveglianza distribuita perché esercitati non da una qualche organizzazione, bensì anche dal singolo che può usare il computer, la rete e il telefono cellulare per raccogliere dati su amici, amanti, familiari. Sono cioè macchine che consentono a chiunque di esercitare un maggior controllo e sorveglianza. In passato, la Stasi faceva di tutto per raccogliere informazioni. Adesso chiunque può farlo. C’è poi il secondo livello. Tutti noi possiamo potenzialmente usare le tecnologie digitali per frequentare corsi di francese o per organizzare un viaggio a Firenze senza intermediari. Possono cioè renderci più liberi. Questa maggiore libertà non esclude il fatto che quelle stesse tecnologie possono diventare strumenti di un illiberale controllo sociale.
Due livelli rilevantissimi. Occorre però affrontarli evitando approcci entusiasti o infantili, come quelli che ritengono cool tutto ciò che è digitale. All’opposto vanno evitati giudizi aprioristici sulla tecnologia come fonte di ogni male. Le tecnologie digitali sono cioè parte integrante della natura umana e per questo vanno studiate con il necessario rigore che richiede la rilevanza che esse hanno ormai nella vita sociale e individuale.



INTOLTRE VEDI ANCHE



Intervista a Sherry Turkle – Recensione su Il Manifesto

Sherry TurkleNicola Bruno ha intervistato Sherry Turkle, autrice del ns “La vita nascosta degli oggetti tecnologici”. L’intervista è uscita sabato su Alias, supplemento del Manifesto.

Per leggerla andate qui

Oppure in trascrizione qui, grazie a Vision Post

“La vita nascosta degli oggetti tecnologici” (Editore Ledizioni, 22 euro) è il titolo dell’ultimo libro di Sherry Turkle pubblicato in Italia. Conosciuta come «l’antropologa del cyberspazio», l’autrice è stata una delle prime studiose ad indagare come la «vita sullo schermo» (titolo del suo più celebre saggio) trasforma le nostre identità. Anche nel suo ultimo lavoro, Turkle ci parla dei rapporti viscerali (e spesso patologici) che gli utenti sviluppano con cellulari, video-poker, internet e videogiochi. E suggerisce terapie alternative alle cliniche per la net-dipendenza.

Cosa pensa dei programmi di recupero per la “dipendenza» da internet?
Non amo molto il termine dipendenza. Credo che prima di ricorrere a questa parola dovremmo porci altre domande: cosa spinge gli utenti ad utilizzare la rete in maniera compulsiva? Cosa trovano online che non riescono a trovare nel resto della loro vita? La vita sullo schermo ci dice molte cose su ciò che vogliamo, su quali siano i bisogni della vita reale. Se la si chiama semplicemente dipendenza, si rischia di non vedere questioni più profonde: il nostro comportamento online è una sorta di test della personalità, rivela chi siamo e quali sono i nostri bisogni. Spesso le persone svolgono online quelle azioni che non sono in grado di esprimere nella vita reale.

Non è daccordo quindi con la recente proposta di introdurre la dipendenza da internet nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (la bibbia dei disturbi mentali)…
Si tratta senz’altro di una decisione prematura. Si potrebbe al contrario usare la rete per scopi più costruttivi attraverso il supporto della psicoterapia. Anche perché chi trascorre gran parte della propria vita online già tende ad utilizzare la rete come strumento di auto-riflessione. E qui può arrivare l’aiuto della psicoterapia. Lo psicologo può lavorare con il paziente, andare con lui online, capire cosa cerca di esprimere. Piuttosto che demonizzare la rete, sarebbe meglio sfruttarla come strumento terapeutico, così come si fa con altre terapie espressive (arte-terapia).

A proposito del libro, è molto interessante il capitolo su Slashdot (sito di news tecnologiche, molto frequentato dai “nerd”). Lei dice che i suoi utenti spesso «capovolgono il significato sociale della dipendenza in modo da poterla accettare ». Può spiegarci meglio questo concetto?
Gli utenti di Slashdot ritengono la propria esperienza sul sito molto positiva, dal momento che permette di espandere le proprie capacità intellettuali e sociali. In alcuni casi, si tratta anche di una sorta di «apprendistato» per sviluppare capacità relazionali, oltre che per riflettere sulle rapporto tra tecnologia e società. Eppure chi trascorre molto tempo su Slashdot è anche consapevole che questa attività risucchia molte energie. E così sviluppa un concetto di dipendenza con molte virgolette intorno. E’ qualcosa di cui non sa più fare a meno, ma che viene valutato positivamente dal punto di vista personale. La dipendenza dall’eroina non ha niente a che vedere con tutto ciò.

Il libro è pieno di racconti in cui i pazienti affermano di aver sviluppato una sorta di relazione «erotica » con gli oggetti tecnologici. Da dove deriva questo potere di seduzione?
Amiamo gli oggetti tecnologici perché ci permettono di colmare le nostre vulnerabilità. Ad esempio, non siamo affatto preoccupati della privacy sui social network perché questi ci danno l’illusione di non essere mai soli, di poter essere amici con tutti senza dover per forza mettere in gioco la nostra intimità.

Crede che le tecnologie più immersive (videogame, realtà virtuali online) abbiano un potere seduttivo superiore agli altri gadget tecnologici?
I videogiochi immersivi, soprattutto quelli in cui si ha la possibilità di costruire un avatar, ci permettono di giocare con l’identità. E’ per questo che spesso parlo di questi ambienti virtuali come di «workshop per l’identità». Il timido può diventare estroverso, chi è sciatto può travestirsi da elgante. Non mi sorprende affatto, ad esempio, che su Second Life ci siano davvero pochi avatar brutti. Possiamo giocare ad essere ciò che vorremo essere. Invece di stigmatizzare queste attività, dovremmo capire come, da genitori, insegnanti e terapisti possiamo aiutare gli utenti, soprattutto i più giovani, a trarne vantaggio.

Articolo pubblicato su Chips&Salsa/Il Manifesto del 14 novembre 2009