martedì, maggio 04, 2010
Lettera di Igiaba Scego a Napolitano
Ecco la lettera della scrittrice italo-somala Igiaba Sciego a Napolitano....
Caro Presidente della Repubblica sono una cittadina di questo paese, mi chiamo Igiaba Scego, classe ‘74 e volevo informarla che mi sto arrendendo. Tempo fa Lei ha rincuorato i precari, i disoccupati, i ricercatori senza affiliazione a non gettare la spugna. Ci ha detto «Coraggio non vi arrendete. Non uscite dall’Italia». Ci ha rivolto parole dolci e sincere. Purtroppo Signor Presidente io mi sto arrendendo. E vorrei tanto avere quel coraggio che ho sentito nelle sue parole. Ma questi sono giorni molto difficili. Temo di non essere la sola a sentirsi così. Faccio parte, e non è una vuota statistica, di una generazione a cui sono state tarpate le ali. Sono una precaria della cultura. Sto diventando una precaria della vita. Sono settimane che penso a lei. Mi sono detta «Il nostro Presidente deve sapere». Mi sono chiesta per settimane come ci si deve effettivamente rivolgere al Presidente della nostra Repubblica. Alla fine ho optato per un Caro Presidente perché la parola caro è una parola legata all’intimità della sua figura che ci è padre (e sempre amico), ma anche all’intimità della disperazione quieta che le sto per illustrare. Io sono figlia di somali nata a Roma. Sono cittadina italiana. La Somalia il paese dei miei genitori, della mia altra lingua madre, della mia pelle, delle mie tradizioni più intime si è liquefatto. La Somalia come stato non esiste più dal 1991. La guerra ci sta portando all’apocalisse, alla fine di ogni sogno. Ma ecco la perdita della Somalia mi ha fatto capire quanto invece è importante per me fare qualcosa, anche piccola, per salvare l’Italia e i sogni della mia generazione. Ho due paesi. Uno l’ho (momentaneamente spero) perso, l’altro non lo voglio perdere. Ma come fare Signor Presidente? Come fare a non arrendersi quanto tutto sembra remarci contro? Io non voglio partire, non voglio fare il cervello in fuga. Non voglio scrivere l’ennesima lettera ad un giornale della persona che non ce la fa più e chiude baracca e burattini per tentar la sorte all’estero. Non voglio rinunciare al sogno di poter fare qualcosa in uno dei due paesi che sento veramente mio. Ma questo precariato, questa incertezza costante, mi stanno uccidendo… letteralmente. Ho un curriculum d’eccellenza, ma non serve. Sto cominciando ad avere problemi di salute per le troppe preoccupazioni. Tempo fa un amico di famiglia mi ha chiesto: «Ma tu, per lo stato italiano, cosa sei?». E poi: «Che lavoro fai?». Ho cercato di cavarmela con la solita parola: «Precaria». Ma lui ha chiesto «dettagli». Ho blaterato alcune cose. «Ho finito un dottorato di ricerca. Sono una scrittrice, una giornalista, una ricercatrice senza affiliazione. Sono letta. Collaboro con alcune riviste e alcuni giornali. Faccio mediazione culturale nelle scuole. Ho tenuto lezioni anche in un carcere minorile». Insomma, mi sono messa a fare una lista: «Lo sai che anche all’estero fanno tesi su di me?» ho detto. Ho cominciato a descrivere il mio personale arcipelago di lavori. La via crucis dell’essere precario. Nella speranza che l’amico rimanesse impressionato e la smettesse con le sue domande moleste che, a ogni sospiro, rischiavano di far crollare il castello di carta che m’ero costruita, ho aggiunto che sono laureata, ho fatto un corso di specializzazione, un master universitario, uno stage alla Radio vaticana, due programmi per radio Tre, e che vanto una collaborazione attiva con i giovani studenti del centro sociale Esc. E non mi sono fermata lì. «Ho lavorato in teatro. Scritto saggi. Ho tradotto opere dallo spagnolo». E visto che intendeva aprire di nuovo la bocca, ho continuato: «Conosco il lavoro duro, proletario, perché ho fatto la barista, ho venduto scarpe dietro una bancarella, ho venduto dischi, fatto la hostess nei convegni, l’animatrice con gruppi di bambini». Insomma ho parlato tanto. Mi si è seccata la gola. L’amico di famiglia aveva una domanda di riserva. Quella che temevo più di tutte: «Ma ci vivi con tutta ‘sta roba?». Potevo forse mentirgli? Gli ho risposto: «No, non ci vivo. Devo fare miracoli ogni mese. Vorrei un figlio un giorno, ma non ho idea di cosa gli darò da mangiare. Ora poi la mia situazione s’è fatta più drammatica: c’è la crisi e il poco lavoro». Signor Presidente ho un cervello e delle competenze, ma mi riterrò fortunata, se trovo un call center per sfamarmi nei prossimi mesi. Perché, in questo paese, a una come me offrono solo stage non retribuiti. Non importa se si è preparati. Non importa se si hanno esperienza e cervello. Amo profondamente l’Italia. Ultimamente, però, è cresciuta in me una rassegnazione ai limiti della depressione più cupa. Intorno a me la gente parte. la voglia di migrare tra chi ha 30 anni cresce. L’Italia è tornata ad essere di nuovo il paese degli emigranti. L’ultima dei miei amici ad aver fatto la sua valigia di cartone è Gordana Gaetaniello. Ora sta in India. Nel suo futuro c’è l’Australia. Gordana è l’ennesimo cervello in fuga. Io l’Italia me la porto dovunque nel cuore. Sembra romantico detta così. Ma di fatto è quello che sento. Mi scorre nelle vene. Come la Somalia del resto. Il Bel Paese non sta bene caro Presidente. È un malato grave, ma come dico sempre agli amici non è terminale. Possiamo riprenderci e avere un’altra chance. Io vedo un paese pieno di potenzialità. Gente capace, tante idee, voglia di fare. Però vedo anche il muro che hanno messo su diciamo i poteri forti (non è colpa solo della politica). Le faccio un esempio. L’università. Io ho un dottorato di ricerca e conosco tante persone piene di idee. Il sistema Italia non permette loro di fare ricerca. Molti dei miei amici hanno scelto la strada dell’emigrazione, altri hanno abbandonato il sogno e ora fanno i commessi, i camerieri o perdono il loro talento in un call center. L’Italia ha pagato per formare quelle persone e arrivati al momento della raccolta disperde questo patrimonio immenso. L’università è come un rampollo scapestrato di una ricca famiglia. Il rampollo ha tanti soldi, ma non sa spenderli bene, butta via tutto e rimane in mutande. L’università italiana è un po’ così. Il sistema è bloccato e ci sono pochi fondi. Servirebbe una riforma seria. Servirebbe aprire una questione morale autentica. Mettersi in gioco. Prendersi le proprie responsabilità. Sarebbe bello cominciare ad interrogarci su tante cose. Con onestà, trasparenza, fermezza. Io credo che il cambiamento potrà avvenire in Italia solo se si farà piazza pulita di tutti i comportamenti ambigui. Il mio più grande sogno è poter un giorno insegnare ai giovani studi postcoloniali e migrazioni. Non voglio andare via Signor Presidente. In un momento storico così delicato, dove l’Italia è cambiata, dove c’è una società multiculturale reale, un mutamento antropologico, sento che potrei fare da ponte. Spiegare quello che sta succedendo. Non voglio andare via Signor Presidente. Mi aiuti a restare. Ci aiuti a restare.
Pubblicato il 30 aprile 2010 dall’Unità (pagina 10) nella sezione “Economia”
Caro Presidente della Repubblica sono una cittadina di questo paese, mi chiamo Igiaba Scego, classe ‘74 e volevo informarla che mi sto arrendendo. Tempo fa Lei ha rincuorato i precari, i disoccupati, i ricercatori senza affiliazione a non gettare la spugna. Ci ha detto «Coraggio non vi arrendete. Non uscite dall’Italia». Ci ha rivolto parole dolci e sincere. Purtroppo Signor Presidente io mi sto arrendendo. E vorrei tanto avere quel coraggio che ho sentito nelle sue parole. Ma questi sono giorni molto difficili. Temo di non essere la sola a sentirsi così. Faccio parte, e non è una vuota statistica, di una generazione a cui sono state tarpate le ali. Sono una precaria della cultura. Sto diventando una precaria della vita. Sono settimane che penso a lei. Mi sono detta «Il nostro Presidente deve sapere». Mi sono chiesta per settimane come ci si deve effettivamente rivolgere al Presidente della nostra Repubblica. Alla fine ho optato per un Caro Presidente perché la parola caro è una parola legata all’intimità della sua figura che ci è padre (e sempre amico), ma anche all’intimità della disperazione quieta che le sto per illustrare. Io sono figlia di somali nata a Roma. Sono cittadina italiana. La Somalia il paese dei miei genitori, della mia altra lingua madre, della mia pelle, delle mie tradizioni più intime si è liquefatto. La Somalia come stato non esiste più dal 1991. La guerra ci sta portando all’apocalisse, alla fine di ogni sogno. Ma ecco la perdita della Somalia mi ha fatto capire quanto invece è importante per me fare qualcosa, anche piccola, per salvare l’Italia e i sogni della mia generazione. Ho due paesi. Uno l’ho (momentaneamente spero) perso, l’altro non lo voglio perdere. Ma come fare Signor Presidente? Come fare a non arrendersi quanto tutto sembra remarci contro? Io non voglio partire, non voglio fare il cervello in fuga. Non voglio scrivere l’ennesima lettera ad un giornale della persona che non ce la fa più e chiude baracca e burattini per tentar la sorte all’estero. Non voglio rinunciare al sogno di poter fare qualcosa in uno dei due paesi che sento veramente mio. Ma questo precariato, questa incertezza costante, mi stanno uccidendo… letteralmente. Ho un curriculum d’eccellenza, ma non serve. Sto cominciando ad avere problemi di salute per le troppe preoccupazioni. Tempo fa un amico di famiglia mi ha chiesto: «Ma tu, per lo stato italiano, cosa sei?». E poi: «Che lavoro fai?». Ho cercato di cavarmela con la solita parola: «Precaria». Ma lui ha chiesto «dettagli». Ho blaterato alcune cose. «Ho finito un dottorato di ricerca. Sono una scrittrice, una giornalista, una ricercatrice senza affiliazione. Sono letta. Collaboro con alcune riviste e alcuni giornali. Faccio mediazione culturale nelle scuole. Ho tenuto lezioni anche in un carcere minorile». Insomma, mi sono messa a fare una lista: «Lo sai che anche all’estero fanno tesi su di me?» ho detto. Ho cominciato a descrivere il mio personale arcipelago di lavori. La via crucis dell’essere precario. Nella speranza che l’amico rimanesse impressionato e la smettesse con le sue domande moleste che, a ogni sospiro, rischiavano di far crollare il castello di carta che m’ero costruita, ho aggiunto che sono laureata, ho fatto un corso di specializzazione, un master universitario, uno stage alla Radio vaticana, due programmi per radio Tre, e che vanto una collaborazione attiva con i giovani studenti del centro sociale Esc. E non mi sono fermata lì. «Ho lavorato in teatro. Scritto saggi. Ho tradotto opere dallo spagnolo». E visto che intendeva aprire di nuovo la bocca, ho continuato: «Conosco il lavoro duro, proletario, perché ho fatto la barista, ho venduto scarpe dietro una bancarella, ho venduto dischi, fatto la hostess nei convegni, l’animatrice con gruppi di bambini». Insomma ho parlato tanto. Mi si è seccata la gola. L’amico di famiglia aveva una domanda di riserva. Quella che temevo più di tutte: «Ma ci vivi con tutta ‘sta roba?». Potevo forse mentirgli? Gli ho risposto: «No, non ci vivo. Devo fare miracoli ogni mese. Vorrei un figlio un giorno, ma non ho idea di cosa gli darò da mangiare. Ora poi la mia situazione s’è fatta più drammatica: c’è la crisi e il poco lavoro». Signor Presidente ho un cervello e delle competenze, ma mi riterrò fortunata, se trovo un call center per sfamarmi nei prossimi mesi. Perché, in questo paese, a una come me offrono solo stage non retribuiti. Non importa se si è preparati. Non importa se si hanno esperienza e cervello. Amo profondamente l’Italia. Ultimamente, però, è cresciuta in me una rassegnazione ai limiti della depressione più cupa. Intorno a me la gente parte. la voglia di migrare tra chi ha 30 anni cresce. L’Italia è tornata ad essere di nuovo il paese degli emigranti. L’ultima dei miei amici ad aver fatto la sua valigia di cartone è Gordana Gaetaniello. Ora sta in India. Nel suo futuro c’è l’Australia. Gordana è l’ennesimo cervello in fuga. Io l’Italia me la porto dovunque nel cuore. Sembra romantico detta così. Ma di fatto è quello che sento. Mi scorre nelle vene. Come la Somalia del resto. Il Bel Paese non sta bene caro Presidente. È un malato grave, ma come dico sempre agli amici non è terminale. Possiamo riprenderci e avere un’altra chance. Io vedo un paese pieno di potenzialità. Gente capace, tante idee, voglia di fare. Però vedo anche il muro che hanno messo su diciamo i poteri forti (non è colpa solo della politica). Le faccio un esempio. L’università. Io ho un dottorato di ricerca e conosco tante persone piene di idee. Il sistema Italia non permette loro di fare ricerca. Molti dei miei amici hanno scelto la strada dell’emigrazione, altri hanno abbandonato il sogno e ora fanno i commessi, i camerieri o perdono il loro talento in un call center. L’Italia ha pagato per formare quelle persone e arrivati al momento della raccolta disperde questo patrimonio immenso. L’università è come un rampollo scapestrato di una ricca famiglia. Il rampollo ha tanti soldi, ma non sa spenderli bene, butta via tutto e rimane in mutande. L’università italiana è un po’ così. Il sistema è bloccato e ci sono pochi fondi. Servirebbe una riforma seria. Servirebbe aprire una questione morale autentica. Mettersi in gioco. Prendersi le proprie responsabilità. Sarebbe bello cominciare ad interrogarci su tante cose. Con onestà, trasparenza, fermezza. Io credo che il cambiamento potrà avvenire in Italia solo se si farà piazza pulita di tutti i comportamenti ambigui. Il mio più grande sogno è poter un giorno insegnare ai giovani studi postcoloniali e migrazioni. Non voglio andare via Signor Presidente. In un momento storico così delicato, dove l’Italia è cambiata, dove c’è una società multiculturale reale, un mutamento antropologico, sento che potrei fare da ponte. Spiegare quello che sta succedendo. Non voglio andare via Signor Presidente. Mi aiuti a restare. Ci aiuti a restare.
Pubblicato il 30 aprile 2010 dall’Unità (pagina 10) nella sezione “Economia”